E come per magia si ricomincia a parlare di Iraq, guarda un po’. Tutti si accorgono, solo adesso, che laggiù la situazione non è poi così male come l’avevano raccontata fino all’altro ieri. Ed ecco i primi, timidi, elogi al generale Petraeus. Ed eccoli i primi, timidissimi, quasi sussurrati, apprezzamenti all’ostinazione (vincente) del presidente Bush.
Si accorgono solo adesso che un Iraq democratico, politicamente più stabile, meno soggetto a violenze intestine, potrebbe rivelarsi un fattore determinante per gli equilibri mediorientali e mondiali. Tutti sbalorditi dai dati che confermano come il terrorismo, la criminalità e gli attentati, stiano diminuendo sostanzialmente; la gente riapre i negozi, i mercati si risvegliano, le mamme accompagnano di nuovo i propri figli a scuola, i teatri si ripopolano, un’intera società ricomincia a respirare aria di normalità e di libertà: è un bel colpo di magia o è frutto di una strategia politica efficace? Avremmo ottenuto gli stessi risultati assecondando le richieste pacifiste?
La politica di Bush può essere criticata, certo, ma non possiamo non riconoscere che sia stata efficace: l’America di oggi è molto più sicura di otto anni fa. La lotta al terrorismo portata avanti dal presidente americano, di concerto con i leader europei, ha dato i suoi frutti in occidente, evitando nuovi attentati, ma necessita di continui sforzi e di una collaborazione capillare. Avremmo dovuto capire subito che non potevamo intraprendere un’azione di contrasto al terrorismo internazionale prescindendo da quel territorio così cruciale nello scacchiere mediorientale. Avremmo dovuto capire subito che l’11 settembre non era un problema solo americano.
Ecco quindi che l’Iraq, ironia della sorte, da simbolo del fallimento dell’amministrazione Bush, potrebbe rivelarsi, la sua più grande vittoria. La Storia emetterà il suo giudizio, severo sotto molti aspetti, eppure George W. Bush non sarà ricordato solo per la sua impopolarità.