giovedì 5 febbraio 2009

Eluana e noi.


Capisco chi invoca il silenzio. In questi momenti è difficile pronunciare parole che non siano percepite come eccessive, ridondanti, spropositate o semplicemente fuori luogo. E' il sacro rispetto della vita che ci porta ad essere così premurosi nell'accogliere la morte. Ma se il concetto di progresso coincide con l’uccisione di un essere umano completamente indifeso, capisco anche il bisogno di esternare tutto lo sconcerto e la rabbia di chi vorrebbe vivere, invece, in una società dove i malati siano sempre considerati persone da curare e da accudire amorevolmente fino all’ultimo istante della loro vita; in una società che si faccia carico del dolore, ma che non se ne liberi egoisticamente. Ecco quindi che se per qualcuno lasciar morire una ragazza di fame e di sete può considerarsi una conquista, capisco chi la vorrebbe salvare da questo tragico destino. Capisco quelle suore che in silenzio l’hanno accudita durante tutti questi anni e che ora chiedono al padre della ragazza: perché...? Per che cosa lasciarla morire? Siamo assolutamente convinti che oggi Eluana vorrebbe morire?
Noi che ci consideriamo cristiani – anche se poi viviamo spesso come se fossimo atei – e che siamo cresciuti con l’immagine di Gesù morto per amore dell’umanità in croce, come possiamo accettare che l’amore abbandoni quella ragazza? Come possiamo accettare che sia barbaramente privata di cibo e di acqua, in nome di una sua volontà presunta e ricostruita sulla base di affermazioni remote e non accertabili? E’ carità questa? E’ in questa cultura che vogliamo vivere?
Occorre fare un passo indietro, e chiedersi quando la vita deve essere vissuta. La dignità della vita, infatti, ha a mio parere un carattere ontologico e non può dipendere da una ‘qualità’ misurata solo in termini utilitaristici. Non si può pensare che essere uomo, essere persona degna di vivere, possa diventare una sorta di patente a punti: se hai tutte le funzioni sei degno; se perdi le funzioni perdi la dignità. Finché un bel giorno ti viene tolta la patente, e altri possono decidere per te, avendo la presunzione di dire che quella vita non è degna di continuare. Non lo si può accettare”. (Mario Melazzini, medico, presidente di Aisla, malato di Sla).

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